di Don Giovanni Tangorra - Una storia è fatta per essere raccontata. Anche la Bibbia è una storia, la grande storia del “Dio che viene” incontro agli uomini. Prima di essere impressa nei libri o insegnata nelle scuole, essa era raccontata. Ci si stringeva la sera intorno al fuoco, e l’uomo della memoria cominciava dicendo: «In principio Dio creò il cielo e la terra. La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque….» (Gen 1,1-2). Riusciamo a immaginare il calore del momento. Il crepitio lento e prolungato delle fascine nel focolare, i bambini che si addormentavano, gli sguardi muti rivolti verso il narratore che mimava con i gesti, facendosi egli stesso un racconto.
La parola di Dio è nata così: attraverso l’indecifrabile incrocio tra l’orecchio e una voce narrante, nel raduno notturno di una comunità che si fermava, dopo una dura giornata di lavoro. Non c’erano biblioteche, né scaffali, tutto era nella memoria, anche le preghiere, che si ripetevano, calme, tranquille, come il vento tra i rami degli alberi. È il mistero della conversazione divina. «Con la sua Rivelazione, infatti, Dio invisibile nel suo grande amore parla agli uomini come ad amici e si intrattiene con essi» (Dei Verbum 2).
Credo che un problema della fede oggi stia nel fatto che non sappiamo più raccontarla. I suoi grandi avvenimenti sono stilizzati, argomentati, attualizzati, il che è importante, ma non basta, soprattutto quando si parte da prospettive prestabilite, servendosi della Parola per comunicare le proprie idee. Dopo questo processo di scarnificazione, dell’originaria forma narrativa resta ben poco. La parola di Dio, invece, intreccia avvenimenti e parole, e ha un potere autonomo, parla da sé, si impone da sé. A noi è dato solo di esserne orecchio e voce, come l’uomo della memoria che dice: «Parla, Signore, perché il tuo servo ti ascolta» (1Sam 3,9).
Ciò avviene anche per il Natale. Anziché narrare la sua storia, stiamo spesso a sottilizzare sui concetti, su cosa oggi rappresenta la stella nel cielo, chi sono i magi, i pastori, cosa possono significare la mangiatoia, la grotta, e intanto l’evocazione originaria si perde, come un fiume nel deserto. La comunità forse ne uscirà più istruita, più catechizzata, ma tutto continuerà come prima, perché non è riuscita a sentirsi parte di questa storia. Le spiegazioni possono convincere l’intelletto, ma il racconto parla al cuore, e ha un valore iniziatico. Non a caso Gesù parlava in parabole, e «senza parabole non parlava loro» (Mc 4,34). Il vero predicatore è dunque un buon narratore, che sa coinvolgere gli uditori nei fatti che racconta.
Che cosa è diventato il Natale? È stato trasformato al punto da non riuscire più a coglierne il mistero. È come quella rosa di cui tutti parlano, ma di cui nessuno ricorda più il profumo. Come ritrovarlo? Si può organizzare una lezione di botanica, visitare il museo dei fiori, regalare una rosa a ogni passante, oppure, semplicemente, raccontarlo, dando alle parole l’intonazione giusta, di chi sa di cosa sta parlando. Allora, non sappiamo come o perché, tutti faranno la fila dal fioraio, per comprarsi una rosa.
Nessuno mette in dubbio che il Natale trasmesso dai Vangeli abbia un impianto teologico molto esigente. Gli evangelisti comunicano verità profonde che servono a nutrire la fede dei credenti, ma lo fanno in forma narrativa, sincronizzando tutti gli elementi che compongono un racconto: i personaggi, i fatti, i luoghi, i tempi, i simboli, la rievocazione delle esperienze, la conclusione edificante. Il personaggio principale è Lui: il Dio che viene, questa volta nella sua espressione più alta, che è l’incarnazione, e al tempo stesso più umile, che è quella di un bambino che nasce. Tutto il mistero del Natale sta qui: «Ci è stato dato un figlio» (Is 9,5).
La circostanza particolare della liturgia, che raduna la comunità, dà forza ai racconti, riproducendo a distanza la loro situazione originaria.
Si comincia dalla messa di mezzanotte, con il Natale secondo Luca, che fa opera di artista, colorando la notte con strati di luce. «C’erano in quella regione alcuni pastori che, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce» (2,8-9). La luce dichiara l’identità del nascituro, trasformando il Natale in un racconto di liberazione: «Oggi è nato per voi il salvatore» (2,11).
Luca è l’unico pagano degli scrittori sacri, e sa cosa vuol dire passare dall’esclusione all’inclusione, parla per esperienza e riesce a contagiare i suoi uditori. La colletta della messa riverbera la sua emozione e raccoglie gli animi dell’assemblea, facendo pregare: «O Dio, che hai illuminato questa santissima notte con lo splendore di Cristo, vera luce del mondo». Altra immagine del vangelo di mezzanotte è il “re della pace”, che Luca oppone alla potenza dell’imperatore Cesare Augusto. Nella notte rivestita di luce, risuona il grido dell’araldo: «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama».
Tra i protagonisti del vangelo nella messa dell’aurora spicca Maria, la madre, colei che si è affidata al mistero, generandolo nel suo grembo. Luca sposta i riflettori su di lei, rappresentandola in un’immagine evocativa: «Maria, da parte sua, custodiva tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (2,19). Nella tempesta degli avvenimenti non dice una parola, ma la sua presenza è il racconto vivente di come la comunità vive e celebra il Natale. Si avverte lo stridio con il Natale banalizzato, consumista, che non è più un racconto ma un guscio vuoto, e che per questo non può essere vissuto, ma solo ripetuto con ossessiva fissità, finché non si va a dormire e tutto si chiude. Tristezza di una generazione priva di racconti, di padri che non hanno più nulla da raccontare ai figli!
La messa del giorno racconta il Natale secondo Giovanni. L’evangelista ci fa entrare in un’altra dimensione, lì dove avviene l’incontro tra l’eternità e la storia. L’inizio non è più nel tempo, ma oltre, nell’infinità divina. La voce narrante osa innalzarsi dove nessuno può arrivare: «In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio» (1,1-2). È inevitabile provare un senso di vertigine. Che cosa ha portato l’autore a formulare questa convinzione, facendoci sperimentare a un tempo il fascino e il tremore di un mistero così difficile da misurare?
Da questa origine eterna, il Verbo ha intrapreso un cammino di discesa nel tempo, che porta Giovanni a formulare l’affermazione centrale del Natale cristiano, compromettendosi con la sua testimonianza: «E il Verbo si fece carne (sarx) e venne ad abitare in mezzo a noi e noi abbiamo contemplato la sua gloria» (1,14). Dice sarx e non anthropos (uomo) per rimarcare la condizione di debolezza e di mortalità dell’incarnazione, che avrà il suo termine nella croce.
Non è una discesa indolore e senza scopo. In mezzo c’è la lotta tra le tenebre e la luce, simboli del male e della verità. Lo chiama Verbo (Logos), perché il male si serve della menzogna, mentre lui è venuto per dire il Vero: «Per questo sono venuto nel mondo, per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce» (18,37). Lo chiama Verbo anche perché non si limita a pronunciare “parole”, ma è la Parola personificata. Ne avvertiamo la mancanza, in questo tempo orfano di Parola ma stracolmo di parole urlate, esibite, messe in vetrina, lanciate come sassi.
Nel racconto si avverte la delusione di Giovanni, quando dice «Venne fra i suoi, e i suoi non lo hanno accolto» (1,11), ma anche il suo conforto perché nonostante sia per il mondo uno sconosciuto, Cristo ha posto le sue radici nella storia. C’è pure tanta dolcezza. Dio non è lassù, perduto nello spazio, ma è venuto tra noi, ed è ovunque, anche nella notte. Incarnandosi, ha fatto suo il nostro tempo, e non ritira la sua presenza. Bisognerà forse cercarlo dove meno ci aspetteremmo di incontrarlo, persino dove le mani sono vuote.
Questo è il grande racconto del Natale.