La Liturgia della Parola di questa XXIX domenica del Tempo Ordinario, meriterebbe che gli si dedicasse un'ampia meditazione, soprattutto come invito alle nostre chiese a specchiarsi in quella vera «comunità di fede, di speranza e di carità». Tuttavia vorrei limitarmi a qualche spunto...
A Cesare quello che è di Cesare
«Dice il Signore del suo eletto, di Ciro». Come mai la Bibbia parla così di un re pagano? Tutto il brano profetico che oggi leggiamo è una risposta a questa domanda. Ciro ha conquistato un impero sterminato abbattendo l'uno dopo l'altro i re nemici; ma in tutto ciò egli ha agito come strumento scelto da Dio per realizzare i suoi disegni; il profeta pensa certamente in primo luogo alla liberazione del suo popolo, al quale Ciro ha consentito e facilitato il ritorno in patria dal lungo esilio. Ma il Signore vero e unico è Jahvè, fuori di lui non c'è altro Dio. Ci furono in passato dei cristiani che assunsero di fronte al potere dello stato, specialmente quando li perseguitava, e all'attività politica in genere una posizione di totale rifiuto. Così i farisei, e specialmente gli zeloti, che avrebbero voluto tirare Gesù dalla loro parte, come il Messia venuto a liberare Israele dal dominio romano. Ci sono ora dei cristiani che guardano alla politica come a una cosa sporca o che comunque non ha niente da spartire con l'impegno religioso. Gesù non esita a deludere le attese dei nazionalisti rispondendo: «Rendete a Cesare quello che è di Cesare».
Egli riconosce che esiste una società civile, che un «Cesare», cioè un'autorità, comunque si chiami, è necessaria per provvedere alle esigenze del bene comune. Pagare il tributo è un riconoscimento pratico e doveroso di questa realtà. Lo è anche oggi. L'evasore fiscale che agisce per istinto egoistico e priva la comunità del contributo a cui essa ha diritto, non viola solo una legge dello Stato ma trasgredisce un dovere di coscienza e dovrà rispondere al tribunale di Dio. S. Paolo farà eco alla parola di Gesù: «Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto; a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse, le tasse; a chi il timore, il timore; a chi il rispetto, il rispetto» (Rm 13,7). Prima ha affermato apertamente il dovere di obbedire alle «autorità costituite» (Rm 13,1-2).
Il Concilio dedica tutto un capitolo (il quarto) della Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo alla vita della comunità politica. Ecco cosa dice dei doveri dei cristiani in questo campo: «Tutti i cristiani devono prendere coscienza della propria speciale vocazione nella comunità politica; essi devono essere d'esempio, sviluppando in se stessi il senso della responsabilità e la dedizione al bene comune; così da mostrare pure con i fatti come possano armonizzarsi l'autorità e la solidarietà di tutto il corpo sociale, l'opportuna unità e la proficua diversità» (Gaudium et Spes, 75). Questo vale a ogni livello della vita associata, dal quartiere al comune, dalla regione allo stato, dal sindacato alla politica.
A Dio quello che è di Dio
Accettare l'autorità civile è riconoscere l'autonomia nel campo che le è proprio. «La comunità politica e la Chiesa sono indipendenti e autonome l'una dall'altra nel proprio campo. Tutte e due, anche se a titolo diverso, sono a servizio della vocazione personale e sociale delle stesse persone umane» (Gaudium et Spes, 76).
Ma la risposta di Gesù non intende certamente mettere sullo stesso piano Dio e Cesare. Questi non è che un uomo, soggetto a Dio che si serve di lui, come si è servito di Ciro, per attuare i suoi disegni e a Dio dovrà rendere conto dal momento che, come Pilato, non avrebbe nessun potere se non gli fosse stato dato dall'alto (cf Gv 19,11). Perciò l'autorità non può esercitare il suo potere se non nei limiti segnati dalla legge morale, a cui debbono conformarsi le leggi di qualsiasi organismo sociale. In base a questo principio, «vengono condannate tutte le forme di regime politico, vigenti in alcune regioni, che impediscono la libertà civile e religiosa, moltiplicano le vittime delle passioni e dei crimini politici e distorcono l'esercizio dell'autorità dal bene comune per farlo servire all'interesse di una fazione o degli stessi governanti» (Gaudium et Spes, 73). Quando i capi del popolo e gli anziani ordinarono agli apostoli «di non parlare assolutamente né di insegnare nel nome di Gesù», la replica di Pietro e Giovanni fu pronta e recisa: «Se sia giusto innanzi a Dio obbedire a voi più che a lui, giudicatelo voi stessi; noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato» (At 4,18-20). Risposta che è sempre normativa di fronte a qualsiasi autorità umana che pretenda di opporsi alla suprema autorità di Dio.
Ma il Concilio non si limita a una messa in guardia dagli abusi. I detentori del potere e tutti i cittadini, chiamati ad assumersi anch'essi la responsabilità che loro spetta, sono invitati a impegnarsi in senso positivo. «Per instaurare una vita politica veramente umana non c'è niente di meglio che coltivare il senso interiore della giustizia, dell'amore e del servizio al bene comune e rafforzare le convinzioni fondamentali sulla vera natura della comunità politica e sul fine, sul legittimo esercizio e sui limiti di competenza dei pubblici poteri» (Gaudium et Spes, 73).
Fede, carità e speranza
«A Dio quello che è di Dio». Sarebbe restringere indebitamente il senso di queste parole riferirle solo al campo politico-sociale, sia pure considerato secondo la morale cristiana. C'è qualcosa nell'uomo che non sia di Dio? A Dio dunque, dobbiamo rendere. In qual modo? Una risposta è nell'elogio che Paolo fa della comunità di Tessalonica, ricordandone l'impegno nella fede, l'operosità nella carità, la costante speranza. Sono virtù teologali praticate in una maniera autentica che può ben riassumere tutti i doveri del cristiano verso Dio; e, poiché non c'è vero amore di Dio senza amore del prossimo, verso i fratelli. Questo è avvenuto a Tessalonica perché «il nostro vangelo non si è diffuso fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con potenza e con Spirito Santo e con profonda convinzione». Possiamo dire altrettanto delle nostre comunità? A questo dobbiamo tendere, nell'incessante opera di evangelizzazione. E non soltanto per le nostre comunità, ma anche per quei fratelli a cui la luce del Vangelo non è ancora pervenuta o va facendosi strada in mezzo a mille difficoltà per l'opera generosa dei missionari.
Don Gerardo Battaglia,
San Carlo Borromeo, Cave